(Adnkronos) Le elezioni europee, in genere, si prestano ad analisi meno nette e più sfumate delle sconfitte. Questa volta, però, ci sono tre risultati che possono essere letti con una stessa chiave inequivocabile. Matteo Renzi e Carlo Calenda, rimasti sotto la soglia del 4% con Stati Uniti d’Europa e Azione, e Giuseppe Conte, intorno 10% con il peggiore dato dal 2013, possono trarre una conclusione comune rispetto all’esito delle urne: non hanno pagato le scelte autoreferenziali, quelle più lontane da una collocazione comprensibile per gli elettori anche in chiave futura. Un’interpretazione che vale meno per un altro leader che non esce dalle elezioni con un dato positivo, Matteo Salvini, che subisce il ‘sorpasso’ di Forza Italia ma gioca con la Lega una partita saldamente inquadrata nel perimetro del centrodestra.
Le affermazioni nette di FdI e Pd beneficiano di una polarizzazione che suggerisce un ritorno a una dialettica sostanzialmente bipolare. Nonostante il sistema di voto proporzionale delle Europee e nonostante il quadro politico italiano sia più complesso, viene premiata dagli elettori una chiara scelta di campo. Lo dimostrano la percentuale complessiva del centrodestra, che sale rispetto alle ultime politiche anche grazie ai numeri di Forza Italia e a quelli che la Lega sostanzialmente tiene rispetto al 2022, l’affermazione del nuovo corso Dem di Elly Schlein e il risultato oltre le attese di Alleanza Verdi e Sinistra.
Cosa accade invece intorno ai due poli? Renzi e Calenda, che insieme avrebbero potuto contare su risultato ben diverso, pagano una conflittualità difficile da spiegare se non con una ostinata determinazione a rimarcare differenze, e distanze, che sono state lette soprattutto come una malcelata intenzione di delimitare un perimetro più utile a contarsi che a contare. Restare fuori dal Parlamento Europeo vuol dire, per tutti e due i leader, dover mettere in discussione radicalmente la strada percorsa finora.
Quanto ai Cinquestelle, le elezioni europee si confermano un territorio difficile. C’è però ragionando delle scelte fatte da Conte in questa campagna elettorale un tema più largo, che riporta alla collocazione e alla strategia del Movimento, che rischia di perdere definitivamente la propria identità senza riuscire a conquistare quel peso che, nelle intenzioni dell’ex premier, avrebbe dovuto consentire di giocare quasi alla pari con il Pd. La distanza che c’è oggi dai Dem costringe invece a un ripensamento che i risultati elettorali sembrano indirizzare verso una maggiore coerenza nell’alleanza delle forze politiche che vogliono costruire un’alternativa di governo al Centrodestra. Coerenza che non vuol dire rinunciare alla propria identità ma metterla al servizio di una proposta con un orizzonte comprensibile.
Per tutti e tre i leader, Renzi, Calenda e Conte, c’è un tratto in comune: la personalizzazione della propria proposta politica non è stata vissuta come una affermazione di una leadership credibile. E da qui dovranno ripartire. (Di Fabio Insenga)