(Adnkronos) “La sfida tra Trump e Biden (se alla fine sarà lui) ci racconta un’altra America. Non più quella rassicurante, forte, protettiva, ingombrante, a volte intrusiva, che ha segnato il nostro dopoguerra. Ma il suo opposto, o quasi. Un grande paese chiuso in se stesso, alla ricerca di un guscio che lo ripari dalle traversie del mondo e dalle inquietudini che affiorano nelle sue stesse contrade.
Un tempo gli Stati Uniti esprimevano la potenza. Ovviamente c’era chi da quella potenza si sentiva garantito e chi all’opposto se ne sentiva minacciato. Il nostro lungo dopoguerra s’è svolto quasi tutto sotto quel segno, fin dalla nostra adesione alla Nato, poi dalle proteste di piazza all’epoca del Vietnam, poi ancora da mille altre vicissitudini. Ma si trattava sempre, nel bene e nel male, di un punto fermo -condivisibile o meno.
Ora invece essi esprimono piuttosto la loro fragilità, e ci spaventano appunto per questo. La fragilità di Biden è nella sua età e nella sua salute, ovviamente. Ma anche nella stanchezza del suo partito, pur vecchio e glorioso. La fragilità di Trump, apparentemente meno evidente, è nella sua ansia di ripiegamento. L’America ‘great again’ raccontata dal candidato repubblicano è infatti un paese che si disfa dei suoi fardelli, abbandona l’Ucraina al suo destino, chiede all’Europa di spendere in armamenti per difendersi da sola e si concentra su priorità assai più domestiche. Meno “imperiale”, se vogliamo. E molto, molto più isolazionista.
L’ammainabandiera a Kabul, tre anni fa, cominciato da Trump e concluso poi da Biden in perfetta linea di continuità, apparirà probabilmente agli occhi degli storici di domani come il punto di svolta e quasi l’inizio di un’altra America. Quella svolta sembrava voler archiviare i postumi dell’11 settembre. Con i suoi buoni propositi e anche con i suoi tragici errori (Iraq, 2003). Dando così inizio alla ricerca di altri modi, meno costosi e meno rischiosi, di difenderci dalle tempeste globali. All’epoca i voli charter che decollavano dall’Afganistan ricordarono a tutti gli elicotteri in fuga dall’ambasciata Usa di Saigon, quasi mezzo secolo prima. Cosa che indusse Macron a parlare di una morte cerebrale della Nato. E assai probabilmente indusse Putin a prenderne nota non senza soddisfazione.
Così ora, la sfida tra i candidati alla Casa Bianca, l’uno pieno di guai giudiziari e l’altro pieno di acciacchi di salute e di memoria, non fa che riflettere questo appannamento della potenza americana. Evocando infine una condizione di progressivo disimpegno dagli affari del mondo. E caricando sulle spalle degli alleati il fardello non lieve di maggiori spese militari e il fardello ancora più oneroso di maggiori responsabilità strategiche.
Per l’Europa quei fardelli saranno particolarmente impegnativi. Intanto perché una diversa ripartizione degli oneri renderà più arduo il finanziamento del nostro welfare, che è il tratto distintivo di quel che siamo. E poi perché la responsabilità di decidere in prima persona il modo migliore per affrontare i dossier più strategici di un mondo in fibrillazione potrà complicare ancora di più la ricerca di soluzioni comuni all’interno dell’Unione.
Per questo appare alle volte quasi un po’ infantile la ricerca delle benevolenze americane, presenti e future, che anima le leadership di casa nostra. E’ stata un’abitudine assai diffusa nel passato, quando l’accreditamento presso la Casa Bianca faceva parte del curriculum dei protagonisti dell’epoca. Ma ora si tratta di riempire un vuoto e non più di rivendicare un imprimatur.
Sarà il caso dunque di rifare i compiti a casa, dato che quelli che ci hanno consegnato le generazioni di prima non sono più così attuali. Sapendo che un’America tanto malmessa non ci consente più di lamentare i suoi antichi eccessi ma ci costringe piuttosto a fare i conti con i suoi nuovi difetti”. (di Marco Follini)